Introduzione alla serata conclusiva de “Il cortile dei gentili”



Palermo, sagrato della Cattedrale, 30 marzo 2012


Chi apre con un discorso una serata che promette canti e danze rischia di apparire tremendamente inopportuno e noioso. Eppure, anche un momento di riflessione può forse aiutarci a gustare meglio quello che seguirà.
Permettetemi, perciò, di iniziare questo incontro conclusivo del “Cortile dei gentili” celebrato a Palermo riprendendo ciò che ieri, inaugurandolo, il Card. Ravasi ha additato come sua chiave di lettura, e cioè il senso della cultura. Perché è comunque cultura - anche se diversa da quella di cui si sono occupati gli studiosi nei dibattiti del mattino e del pomeriggio - quel che qui ci accingiamo a fare. E la domanda che ci dobbiamo porre è in linea con il tema che oggi è stato al centro di questo “Cortile dei gentili”, il ruolo delle religioni nello spazio pubblico:  può la fede dare del fenomeno culturale una giustificazione che non cada nell’unilateralità e nel fondamentalismo? Di più, possono le religioni – e in particolare quella biblica - contribuire a una visione “aperta” della cultura che favorisca il dialogo e il superamento della violenza?
Acquista un singolare significato, in ordine a questo interrogativo, il fatto che il Dio della tradizione ebraico-cristiana non sia muto, ma si presenti come il Dio della Parola: «In principio era il Verbo» (Gv 1,1). Egli non solo è, ma eternamente dice se stesso e, in se stesso, il mondo, creandolo. Dio crea parlando: «E Dio disse…» (cfr. Gn 1,3 ss). O, che è lo stesso: la Parola divina è creatrice.
Ma questo non getta luce solo sull’identità di Dio: illumina il senso di quella  dell’uomo che, secondo la Bibbia, è creato a sua immagine. Poiché l’uomo dice anch’egli se stesso e il mondo ogni volta che esprime il proprio mistero e quello della realtà che lo circonda. E in quanto è questa esigenza di “dirsi” e di esprimere il senso delle cose, dando loro  i nomi che le identificano (come fa Adam nell’Eden), a costituire la cultura, potremmo dire che proprio in essa si realizza l’intima somiglianza tra il Creatore e la creatura umana.
Ora, fin dalla prima metà del II secolo, alle origini della tradizione cristiana, san Giustino martire  scrive che, quando l’uomo fa questo, quando cerca ed esprime la verità di se stesso e del mondo e ne sfiora qualche frammento, è presente nella sua opera la stessa Parola di Dio. Col suo “dirsi” l’uomo è partecipe del “dirsi” di Dio nel Verbo. Perciò, secondo Giustino, in tutte le filosofie, in tutte le religioni, in tutte le culture, sono presenti i «semi della Parola». Vi è qualcosa di sacro, di divino in ogni espressione culturale, che la rende  una celebrazione di Dio  e una partecipazione al suo atto creatore attraverso il suo Verbo.
Dove però è chiaro che, mentre Dio si dice una volta per tutte, senza residui così che la Parola divina è una e perfetta, nella sua eterna compiutezza, le parole umane sono molteplici e imperfette, sempre protese, nel corso della storia,  a riprodurre, completandosi per quanto possibile a vicenda, una compiutezza per loro irraggiungibili. Il termine “cultura” va dunque declinato al plurale: solo le culture esistono, ognuna con la sua ricchezza e con i suoi limiti, ognuna bisognosa delle altre per tentare – anche se sempre vanamente – di riprodurre la pienezza del Verbo da cui derivano.
Perciò queste parole non configurano una unità monolitica, ma – e anche questo ci richiama alla serata inaugurale di ieri nello splendido  Duomo di Monreale – un mosaico (la forma di arte caratteristica del Mediterraneo e di questa nostra città!). E, nel mosaico, le singole tessere formano il disegno complessivo non perché si fondono in una pasta dove perdono la propria identità, ma perché si relazionano l’una all’altra restando se stesse, anche se è nell’insieme che esse acquistano tutto il loro significato e diventano capaci di delineare, come a Monreale,  il volto del Cristo Pantocratore, il Verbo di cui sono espressione. Solo nel loro dialogo reciproco – non in un multiculturalismo che le lasci coesistere ognuna chiusa in se stessa - le culture possono raggiungere pienamente la propria identità.
Un esempio storicamente realizzato di questa dimensione interculturale (che è cosa ben diversa da “multiculturale”) può essere costituito dalla Sicilia, da quel regno normanno dove i re cristiani venuti dal nord avevano una guardia del corpo formata da milizie musulmane e governavano i loro sudditi latini con l’aiuto di ministri greci. Nell’Archivio di Stato di Palermo si conservano ancora dei documenti della Cancelleria regia redatti contemporaneamente  in latino, arabo e greco. E le nostre cattedrali non sono il frutto di una sintesi di stili e di forme artistiche, provenienti da civiltà diverse, che non è mera coesistenza ma feconda compenetrazione?
Di questa ricchezza molteplice e sempre protesa oltre se stessa, verso una sintonia che sempre sfugge, ma si annida come una nostalgia nel cuore di ciascuna espressione culturale, saranno testimonianza suggestiva anche i canti, le danze, le parole che qui fra poco seguiremo.
Nel mosaico, però, l’unità - proprio perché non è data a priori, ma scaturisce come risultato da una costruzione progressiva - non è garantita. La relazione tra le diverse tessere suppone una convergenza che può sempre essere rimessa in discussione. Da questo punto di vista,  l’altra faccia del mosaico è il puzzle, un enigma, dove la frammentarietà dei pezzi da ricomporre mette di fronte anche  a  contraddizioni irrisolte e forse irrisolvibili. Così la storia del rapporto tra le culture parla di felici incontri e di fecondi meticciati, in cui le identità si sono arricchite a vicenda,  ma anche di reciproche chiusure, di conflitti mortali, di violenze inaudite. Fino ad oggi. Il fondamentalismo è sempre in agguato. E, all’interno di una stessa cultura, possono esistere forme devianti, come nel caso di quella mafiosa.
Ma non c’è bisogno di citare la mafia, per indicare casi di rottura della sintonia che dovrebbe costituire l’unità nella sua variegata armonia. Il Card. Ravasi citava ieri sera una frase secondo cui  la cultura di un popolo si misura dal contegno che tiene in strada. Per chi ha esperienza del traffico stradale di Palermo questa frase suona tremenda.
Ma essa è anche un invito a riflettere e a chiederci come sia possibile, in questa città, in quest’Isola, riportare il puzzle caotico in cui siamo immersi alla logica del mosaico, sempre in costruzione, ma pur sempre espressione di una tendenziale unità. Quel che appare chiaro è che non si tratta di stabilire nuove regole, di fare altre leggi. Sappiamo bene che in Italia, e anche da noi, in Sicilia, ce ne sono fin troppe. E più ne facciamo meno le rispettiamo. Forse anche perché a volte sospettiamo – e non sempre a torto, purtroppo – che l’intento di coloro che le fanno siano interessi particolari e non il bene comune.
La soluzione non sta dunque nel moltiplicare i comandi e i divieti. Essi si rivelano ogni giorno di più fragili dighe rispetto alla forza delle nostre passioni di uomini e donne meridionali. Una proposta, alla quale qui si può solo accennare, potrebbe essere di riscoprire quell’etica delle virtù che i nostri avi greci elaborarono molti secoli fa e che la tradizione cristiana – ancora una volta la religione entra in gioco – ha in larga misura accolto e approfondito fino alle soglie dell’età moderna, quando questa impostazione fu messa da parte e dimenticata. Un’etica alternativa a quella delle regole imperative, perché essa, invece di mettere in primo piano i doveri, punta sulla presa di coscienza del fine che veramente si vuole raggiungere – la felicità – e sulle condizioni per raggiungerlo. Un’etica che, piuttosto che rimuovere passioni e desideri, li valorizza, indirizzandoli verso  ciò che è buono.
E questo è possibile perché ciò che è buono è anche bello (ed ecco un terzo richiamo alla serata di ieri) e, se noi siamo aiutati ad aprire gli occhi su di esso, ci affascina e ci attira. Per questo, certo, è necessaria un’educazione appropriata. E forse il grande compito che attende le religioni, oggi, è quello di un’alleanza educativa in cui ognuna possa dare il proprio insostituibile contributo per la nascita di un’etica pubblica basata su virtù civiche di solidarietà, di responsabilità reciproca, di sobrietà, che rendano la nostra vita migliore, più felice.
Su questa linea, le danze ed i canti a cui stiamo per assistere, e che  ci parleranno di bellezza non solo estetica, ma anche morale, sono frutto di una collaborazione tra culture e religioni diverse in dialogo tra di loro. Da esse dobbiamo cominciare ad imparare.
Queste espressioni culturali convivono nel cuore di Palermo e ne esprimono  la multicolore fisonomia. Il Cortile dei gentili è un’occasione perché, stasera, esse possano emergere pubblicamente e mostrare il volto bello di una città spesso ricordata solo per la mafia e per le immondizie. Certo, anche queste brutture sono fra noi e rompono l’armonia del mosaico. Sta a noi scegliere se lasciarci andare alle derive del caos  o reagire, assumendoci le nostre responsabilità, lavorando insieme  alla elaborazione di una città che rifletta il volto dell’uomo, immagine di quello di Dio.  Da questo punto di vista, il Cortile dei gentili viene a farci prendere coscienza che  cambiare è possibile e che il cuore di Palermo, col suo miscuglio di bene e di male,  può essere ancora pieno di speranza.

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