Incidente pullman belga


Lo spaventoso incidente in cui hanno perduto la vita, sul pullman che li riportava a casa dopo una “settimana bianca”, 22 bambini insieme a 6 loro accompagnatori, è di quegli avvenimenti di fronte a cui anche le parole consuete di deprecazione e di dolore si spengono sulle labbra. Ci sono situazioni tragiche in cui all’orrore si può e si deve accompagnare lo sdegno, la riprovazione per un comportamento umano inaccettabile. E già questa possibilità di sfogare nell’ira la propria angoscia è una segreta fonte di consolazione.
In questo caso non è così.  Certo, una spiegazione a quanto accaduto si dovrà pur trovare, ed è probabile che essa coinvolga le responsabilità dell’autista, magari per eccesso di velocità. Oppure, si ipotizza, è stato un colpo di sonno… Ma davanti a queste giovanissime vite spezzate,  davanti a ciò che provano in queste ore i loro genitori, suonerebbe tremendamente inadeguato un predicozzo sulla necessità di essere più prudenti nella guida.  Giusto, giustissimo, ma fuori luogo.
Ad attendere padri e madri disperati che accorrono nella località dell’incidente ci sarà, dicono i mezzi di informazione, una équipe di psicologi, per assisterli. Che cosa diranno? Che cosa si può dire?
Ma l’interrogativo forse è più radicale e più drammatico, perché  riguarda innanzi tutto ciò che noi possiamo dire a noi stessi di fronte a una tragedia come questa. Gli esseri umani in tutta la loro storia hanno cercato di far fronte al dramma del male in tutte le sue forme. È stata, e sarà ancora, fino alla fine, una lotta senza quartiere contro le malattie, le catastrofi naturali, le ingiustizie, le guerre. Dei progressi si sono fatti. Le grandi ideologie che in passato hanno puntato sul progresso della scienza e della tecnica, oppure sul miracoloso rinnovamento operato da una rivoluzione sociale , sono giunte ad illudersi che un giorno sulla terra sarebbe fiorito un mondo nuovo, senza più pianti né lamenti, dove uomini e donne sarebbero stati finalmente felici. Ma, anche senza arrivare a questo estremo ottimismo, oggi peraltro tramontato, resta l’ammirevole sforzo  dell’umanità per riscattare la propria esistenza, nei limiti del  possibile, dalle ombre che la minacciano.
E poi accade che, al ritorno da quella che doveva essere una bella gita, in un Paese pacifico e progredito, su un pullman di ultimo modello, senza gravissime colpe di nessuno (almeno, fino a prova contraria), l’assurdo fa la sua irruzione e mette in crisi tutti i nostri schemi rassicuranti. Perché la morte – specialmente la morte degli innocenti – non è solo la fine della vita per chi ne è colpito, ma una sfida per quella di chi continua a vivere. Ne evidenzia spietatamente la fragilità, il rischio, il suo essere sospesa, per così dire, sul nulla.
Qualcuno, forse, invocherà la fede religiosa. Molte volte ci si immagina il cristianesimo   come uno schedario, un juke box di risposte. Succede qualcosa che ci inquieta, si infila una moneta ed esce la soluzione che ci tranquillizza. Non è così. Ricordo un sacerdote che una volta mi raccontava di aver portato l’unzione degli infermi a un ragazzo moribondo. Si era preparato un discorsetto edificante, come forse gli psicologi che stanno ricevendo le famiglie dei bambini belgi morti. Poi, quando era arrivato in quella casa e aveva visto il ragazzo, la madre, era rimasto zitto. Gli era sembrato più onesto tacere. Il credente non è uno che sa tutto all’al di qua e sull’al di là. Per lui, come per il suo Signore, che ha pianto davanti alla tomba di Lazzaro, la vita e la morte restano un mistero, nella cui oscurità egli si inoltra, malgrado tutto, con fiducia e con gratitudine, anche se la  luce che lo guida non è quella del sole, ma – come per i magi – la precaria luminosità di una stella .
E forse questa è, al di là dell’essere o meno credenti,  la scelta decisiva davanti a cui eventi come questo ci pongono, nostro malgrado: camminare dietro una piccola stella, percependo la tragica maestà della vita, cercando un senso a quello che accade, con la fiducia che il senso ci sia, anche se nascosto, o rassegnarsi a una vita senza senso,  dove il nulla regna sovrano. L’irruzione del male può essere spinta a stordirci – col consumismo, con la frenesia del lavoro, con la  droga – e non pensare, oppure sfida che ci chiede di abbracciare la realtà in tutta la sua tremenda grandezza. Perchè davvero, come dice un verso di Quasimodo che a volte mi ritorna nella mente, «oscuramente forte è la vita».

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