Concistoro e Vaticano


Forse può essere letto come un segnale della Provvidenza il fatto che il Concistoro  appena celebrato si sia svolto alla vigilia del mercoledì delle ceneri e della Quaresima, tempo in cui ciascuno è chiamato a riconoscere i propri peccati e a fare penitenza. Mai, infatti, un evento tanto significativo per la vita della Chiesa aveva coinciso con una così forte percezione che anche nei sacri palazzi del Vaticano, il cuore organizzativo della cattolicità, si annidano i germi del male e che sia urgente, perciò, anche da parte di coloro che li abitano, quella conversione a cui la Quaresima invita tutti i cristiani.
Si è creato così uno strano contrasto tra il significato della porpora conferita ai nuovi cardinali nel corso della solenne cerimonia -  simbolo dell’impegno di essere fedeli alla Chiesa fino allo spargimento del proprio sangue – e le fughe di notizie di questi giorni, che parlano di prelati dediti, piuttosto che al martirio, a sorde guerre intestine   per la supremazia e  in difesa dei propri ruoli di potere.
E per certi versi non c’è da stupirsene: già nel gruppo degli apostoli i tentativi di garantirsi posti di privilegio, le gelosie, le polemiche,  sono emersi già ben prima del sacrificio di Gesù, come dimostra il tentativo di Giacomo e Giovanni, spalleggiati dall’ambiziosa madre, di strappare al loro Maestro garanzie sulla loro futura preminenza rispetto agli altri. Per non parlare della coerenza dei Dodici in occasione della passione di Gesù: uno di loro fu il traditore che lo consegnò, un altro lo rinnegò e i rimanenti fuggirono tutti tranne il più giovane.
Il Signore era perfettamente consapevole, dunque, di non lasciare il prolungamento della sua missione in buone mani. Ma non cambiò idea: «Chi ascolta voi ascolta me». Il prezioso deposito del Vangelo sarebbe stato da allora in poi custodito - come scrive Paolo, alla luce delle divisioni e delle difficoltà della comunità primitiva - nei fragili e imperfetti vasi di argilla della nostra umanità.
Sì, la storia della Chiesa è partita male e non è continuata meglio, nei duemila anni che ci separano da quelle vicende. Chi la conosce un poco sa bene che, a confronto delle brutture che l’hanno segnata in certi periodi di crisi, i problemi di  questi giorni appaiono delle bazzecole. Ma ciò non ha impedito che lo Spirito di Cristo abitasse, fino ad oggi, questa storia: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». È lo scandalo dell’incarnazione, che rende difficile non tanto la fede nella divinità, quanto il riconoscerla nella povertà umana che essa assume in Gesù e che nella sua Chiesa giunge fino al peccato. Non per nulla un padre dei primi secoli l’ha definita «casta meretrix», una “casta prostituta”.
Dobbiamo dunque considerare gli ultimi avvenimenti un ennesimo incidente di percorso, di fronte a cui non ci resta che pregare, come hanno fatto i santi in passato davanti alle piaghe della Sposa di Cristo?
Neanche questo sarebbe appropriato alla situazione. Perché qui vi è qualcosa di nuovo e di diverso, rispetto al passato,  che non riguarda la gravità oggettiva degli episodi – ripetiamo, assai meno compromettenti di quelli di altre epoche – , ma la percezione soggettiva che ne ha la coscienza collettiva, in primo luogo quella dei credenti.
In primo luogo, perché i mezzi di comunicazione oggi danno a questi episodi una diffusione che li porta a conoscenza di un numero di persone immensamente più grande che nel passato e  trasformano in un pubblico scandalo ciò che prima era confinato nelle segrete stanze della Curia vaticana.
Ma, soprattutto, per la nuova consapevolezza dei fedeli laici. Essi non si riconoscono più, dopo il Concilio Vaticano II, nel ruolo che assegnava loro Pio X quando scriveva, nell’enciclica Vehementer nos (1906), che nella Chiesa «la moltitudine non ha altro dovere che di lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori». Oggi i laici cristiani sono in grado di verificare se chi li guida corrisponde al modello impersonato da Gesù, che «è venuto per servire e non per essere servito». E ritengono loro dovere, prima ancora che loro diritto, esercitare quello che nel Convegno delle Chiese d’Italia del 1995, a Palermo, veniva definito il «discernimento comunitario», esprimendo con rispetto, ma con parresìa e senza reticenze reverenziali, le loro valutazioni sull’operato della gerarchia. Anche dentro la Chiesa sta nascendo un’opinione pubblica (cfr. padre Federico Lombardi al Vatican Meeting for bloggers, del maggio 2011), non  per entrare in un’assurda concorrenza con la funzione di governo che spetta ai Pastori, ma proprio per rendere un prezioso servizio a questi ultimi, che nella loro delicatissima missione non hanno certo bisogno né di adulatori  né di muti spettatori.
Perciò è venuto il momento che qualcosa, nella Curia romana, cambi.  Già nel 2005, durante la Via crucis che aveva preceduto la sua elezione a Pontefice, l’allora cardinale Ratzinger aveva stupito tutti  per la franchezza - inusuale negli ambienti curiali – con cui aveva denunziato i mali della comunità cristiana: «Non dobbiamo pensare», aveva detto, «anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? (…) Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!». Non ci si può fermare al pur necessario e meritorio impegno contro la pedofilia. La testimonianza della Chiesa non dev’essere oscurata da stili antievangelici. Non per correre dietro ai moralismi pretestuosi dei laicisti che prendono spunto da queste vicende per attaccare la Chiesa, ma per rispetto nei confronti di coloro che credono in essa e la amano.

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