Il Concilio tra continuità e discontinuità

L’11 ottobre del 1962 si apriva il Concilio Vaticano II. A questa data abbiamo voluto legare la nascita ufficiale del nostro sito, che si propone di tenerne vivo lo spirito e lo stile. Temo la retorica in cui la forza rinnovatrice dell’evento - da tempo, e in questo anniversario più che mai – rischia di essere di fatto oscurata e neutralizzata. Così come temo gli “opposti estremismi” dei sostenitori della continuità e di quelli della discontinuità del messaggio conciliare rispetto alla tradizione. Perché la vera tradizione è tale solo se l’una e l’altra si intrecciano indissolubilmente nella sua crescita. 
A chi enfatizza la continuità, propongo di confrontare due testi. Uno, l’enciclica Vehementer nos, del 1906, in cui Pio X, ricorda – in linea con una posizione largamente affermata da secoli -  che «la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. E queste categorie sono così nettamente distinte fra loro, che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l'autorità necessari per promuovere e indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali; e che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi Pastori».
L’altro testo è il n.43 della Gaudium et Spes: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del magistero».
Sono passati meno di sessant’anni. La continuità si vede chiaramente nel richiamo alla fedeltà all’insegnamento del magistero. Ma quale abisso tra le due visioni del rapporto tra gerarchia e laicato! E sarebbe facile allargare il discorso e trovarne le radici nel passaggio da una Chiesa gerarchica a una che, come afferma la Lumen Gentium, è «popolo di Dio», comunione di carismi e ministeri diversi, in cui ognuno ha il suo compito al servizio degli altri.
Ai sostenitori accaniti della pura e semplice discontinuità, vorrei solo far notare che, se davvero il Concilio Vaticano II avesse destituito di valore tutto ciò che lo precede, esso stesso non potrebbe rivendicare alcuna autorità al di fuori del suo tempo storico e sarebbe destinato a diventare l’effimera espressione di una stagione. E in questa logica si pone chi vorrebbe un Concilio Vaticano III, che però, purtroppo, avrebbe lo stesso destino, in attesa di un Vaticano IV, e così via.
Quel che ci chiesto, oggi, è di tradurre questo Concilio - così spesso evocato e così palesemente tradito nella pratica ecclesiale che abbiamo tutti sotto gli occhi -  in scelte concrete. La vita della Chiesa cambierebbe profondamente, così come cambierebbe il suo rapporto con il “mondo”. I cinquant’anni trascorsi senza che ciò sia accaduto non devono scoraggiarci. Anche il Concilio di Trento impiegò molto tempo a diventare  realtà. La storia ha i suoi tempi, che non sono quelli di qualche generazione. L’importante è sapere che c’è ancora molto da fare e non illudersi o fingere di averlo già fatto. 

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